giovedì 30 maggio 2019

ICHI GO ICHI E

Storie, da un seminario di iaido.
Con i  diversi livelli di esperienza e le diverse sensazioni provate durante lo stage primaverile CIK di Iaido, è nata una piacevole collaborazione con Carlo Sappino, Iaido 6-dan, Kendo 4-dan, con il quale è stato scritto questo post che cerca di ripercorrere un evento caratterizzato da innumerevoli concetti espressi dai Maestri,  attraverso le nostre personali capacità di "sentire" i messaggi lanciati.
Un post a quattro mani, ma, evidentemente, con un cuore solo.

Modena 18 maggio 2018, primo anno dell’era Reiwa.

Dopo l’apertura ufficiale del seminario primaverile di iaido da parte delle autorità CIK, ha preso la parola per un breve saluto il Maestro Azuma Yoshinobu inviato dalla All Japan Kendo Federation.
Non si ricordano esattamente le parole, ma il nocciolo del suo intervento può essere così sinteticamente riportato:

“Ci incontriamo per questo seminario di iaido senza sapere se avremo occasione di rivederci ancora in futuro. Dovremmo quindi applicare, a questo nostro incontro, il concetto che viene espresso in Giappone con la frase ichi go ichi e."

Ichi go ichi e (ichi: uno; go: tempo, periodo, età, stagione, sessione, opportunità; e: cerimonia, riunione, assemblea, incontro) è un idioma giapponese a quattro caratteri che descrive un concetto culturale che mette in risalto, per la sua preziosa unicità, la natura irripetibile di un incontro.
Il riferimento a quel concetto profondamente Zen del cogliere l'attimo è lampante. L'invito a dare valore o a ricercare valore in un incontro che è unico e irripetibile, ma soprattutto transitorio e che non si deve lasciar andare. Viverne il qui e l'ora e apprezzarne i contenuti perché potrebbe essere l'unica occasione. Un carpe diem proattivo e non certo un semplice tirare a campare.
L’unicità dell’incontro inoltre non è da intendersi nell’accezione più tipicamente occidentale legata al destino, ma alla preziosità dell’incontro stesso tra i partecipanti, in virtù del fatto che saranno essi stessi cambiati in un futuro incontro. L‘irripetibilità dell’incontro è quindi determinata anche da noi stessi, motivo per cui assistere più volte ad un seminario con un Maestro porta sempre a nuove sensazioni e ad apprendere nuovi concetti.
Nel rituale della cerimonia del té si ritiene che la stessa cerimonia non possa mai essere ripetuta due volte identica nel tempo, ragione per cui si rende necessario mettere tutto se stessi e tutto il proprio cuore per prendersi cura dei propri ospiti.

Il messaggio del Maestro Azuma è stato chiaro.
Sono qui per questo seminario, forse non avremo più occasione di vederci, per cui impegniamoci al massimo e cerchiamo di trarre, da questo incontro, il massimo profitto.
Ichi go ichi e si applica non solo a persone che si conoscono e si incontrano nuovamente, ma anche in occasione di un nuovo incontro con persone che probabilmente non si incontreranno mai più. La formula di apertura di Azuma Sensei appare quindi molto più profonda di quanto avesse potuto essere percepita ad un primo ascolto, indice della volontà del Maestro di essere un ospite eccezionale che tenga a cuore ogni singolo partecipante, conosciuto o meno, e a cui desideri donare qualcosa di unico, in questo caso la sua esperienza e i suoi consigli, di cui farne vero tesoro.
È difficile riportare gli innumerevoli dettagli forniti per la migliore esecuzione di uno iaido corretto, portati all’attenzione dei partecipanti in una sessione durata quasi cinque ore, a partire dal reiho di cui gli esempi di Komura Sensei trasudavano profondità.
Sorvoleremo quindi sugli insegnamenti tecnici che il Maestro ci ha fornito per ciascuno dei kata di Seitei per andare piuttosto ad una serie di concetti, spunti di riflessione ed approfondimenti, ovviamente tutti finalizzati al miglioramento del nostro iaido.
Il primo concetto che il Maestro ci propone è quello di fare in modo che il nostro shisei (postura, atteggiamento) sia dinamico, non solo una postura formale, ma che assuma una forma in grado di riflettere una serena predisposizione all'azione.
La parola shisei, viene spiegato, è composta da due kanji: shi che può essere tradotto con forma, postura, figura, e sei che significa vigore, dinamicità. Il termine completo indica la propensione ad esprimere i diversi aspetti di una persona, fisici, mentali e spirituali, nei diversi tempi che caratterizzano un’azione, a partire quindi da ben prima che l’azione stessa inizi. Non indica quindi solamente una presenza formalmente corretta ma comprende la profondità della dedizione con cui ci si è impegnati nello studiare, e possibilmente raggiungere, un movimento efficiente del corpo, con il corretto stile e vigore, aggiungendo al concetto più standard di postura quello di un’attitudine mentale che ci permetterà infine di entrare nel kata.
Un punto su cui il Maestro ha ritenuto opportuno soffermarsi è proprio quello di shisei non come un mero aspetto tecnico, ma insieme a reiho, di cui shisei fa parte, il riflesso della nostra anima, della profondità della nostra pratica e, per questo, soprattutto in sede d'esame, già parte fondamentale della valutazione. Il concetto di shisei è stato ripetuto più volte durante la spiegazione dei kata, ponendo l’accento sul fatto che ogni singola tecnica per essere efficace debba necessariamente passare attraverso l’attivazione di shisei, tanto da definirlo il concetto chiave su cui sarebbe stato impostato l’intero seminario.
Insieme alla postura, un buon numero di esempi, correzioni e consigli sono stati forniti già solo per l’avvicinamento al kaishisen, a quale distanza porsi (30 cm), come possa variare questa distanza durante un enbu, ma come necessariamente il punto di inizio e di fine debbano essere fissi e coincidenti.
Uno shisei corretto esprime quindi un atteggiamento dinamico nella sua immobilità.
Appare quasi come un controsenso, ma tutto quadra se lo interpretassimo proprio come l'essere pronti all'azione: potremmo pensate ad un centometrista pronto al via sui blocchi di partenza, immobile, rilassato, pronto a far esplodere all'istante la sua energia e la sua tecnica.
Esiste un termine giapponese, okori, che indica l'inizio di un attacco: ne troviamo traccia in tutte le discipline marziali, in quelle tecniche che permettono di prendere attivamente l’iniziativa sia proattiva, shikakewaza, che reattiva, ojiwaza. L'applicazione di okori ha il significato di non dare all'avversario alcuna indicazione o riferimento della partenza dell'attacco che sta per subire. 
L’idea rimanda allo studio e alla minaccia all’avversario caratterizzata solo da postura e seme di spirito, situazione molto comune nell’incontro tra gatti, anche domestici e anche solo in fase di gioco, che sferrano la zampata dopo un’intensa attesa apparentemente statica, con quell’innata capacità di percepire quella frazione di tempo in cui l’avversario abbia un minimo calo di attenzione, un respiro, uno sguardo appena fuori fuoco, per coglierlo di sorpresa con un attacco fulmineo, sempre efficacemente a segno.
Pensare al nostro shisei dinamico in termini di okori ci aiuterà a realizzarlo, a mantenerlo ed a renderlo evidente.
Come si realizza? Questo lo sappiamo già: schiena dritta, testa eretta, spalle e braccia rilassate, energia nel seika tanden (basso addome), glutei leggermente contratti, eccetera.

I concetti si concatenano l’uno con l’altro e il Maestro introduce il termine keai in seguito ad una domanda.

“In questo passaggio del kata,
l'avversario ha già estratto la spada?”
cit. un partecipante allo stage.

La risposta è keai, percepire una presenza. 
Il concetto che esprime questo termine è il percepire l'avversario ed immaginare quello che stia facendo.
Nel manuale ufficiale di Iaido della ZNKR si riportano numero, azione e direzione in cui si muovono i nostri invisibili avversari, kasoteki, ma non viene specificato cosa stiano facendo esattamente: l'importante è quindi percepirne la presenza e la posizione in modo che il kata possa essere eseguito con spostamenti e tagli corretti nel tempo e nello spazio.
Immaginare cosa stia facendo esattamente kasoteki, da dove stia arrivando, se abbia impugnato, se stia sfoderando o abbia già sfoderato, se abbia preso jodan no kamae o un altro kamae, quale sia la sua velocità di azione, ecc,  aiuta moltissimo ad interpretare il kata soprattutto in funzione del tempo-spazio che ci separa.
È utile anche aggiungere che molto spesso, a fronte di nuove spiegazioni e correzioni che vengono fornite, è necessario rimodellare l'idea dell’avversario per rendere più coerente l'azione.

“Ci sono tre elementi sui quali mi concentro quando eseguo un kata:
sen, jikuashi e jushin.”
cit. Azuma Yoshinobu

Dalle traduzioni di Murata Sensei, si apprende che questi tre punti sono i “segreti” che il Maestro vuole condividere con noi: con la scelta accurata del termine tradotto, Murata Sensei, lascia intendere quanto fondamentali siano nella pratica, e infatti il rispetto di questi tre punti, dice il Maestro Azuma, ci permetterà di costruire nel miglior modo il kata.
Questi i tre punti sui quali impegnarsi e concentrarsi nell'esecuzione di un kata:
  1. Sen,  le linee del kata
  2. Jikuashi,  il piede dominante
  3. Jushin,  il baricentro
Se lo iaidoka rispettasse questi tre elementi nell'enbu, i kata sarebbero sicuramente corretti.
Ecco cosa prevede quindi lo studio e l’applicazione di questi tre aspetti fondamentali sui quali concentrare la nostra attenzione e da praticare con costanza.

SEN, la linea

È necessario cercare e comprendere le linee d'azione di un kata per la sua corretta esecuzione, disegnando e percependo le linee che il proprio corpo deve produrre.
Le linee del kata sono tante e ad esse si sovrappongono quelle tracciate dal nostro corpo.
Si possono individuare tre tipologie di linee:
  1. la linea che percorre kasoteki, da individuare con metsuke, fondamentale perché ci si deve trovare nella posizione giusta, e nel momento giusto, per poter prendere la nostra posizione ed effettuare quindi una successiva tecnica efficace, sia essa un attacco o una difesa
  2. la linea del nostro attacco per atemi, tecniche di percussione, tsuki, stoccate, e tagli, con la consapevolezza che si tratti di una linea tridimensionale perché presuppone anche differenti altezze oltre a differenti direzioni e angoli
  3. la linea che traccia il nostro corpo, che deve essere coerente con la prima tipologia e funzionale per la seconda.
Primo punto chiave del “buon” kata è quindi il rispetto delle direzioni e delle altezze accompagnato da un corretto metsuke, nonchè dalla posizione che la spada assume in relazione a tali direzioni e linee.

JIKUASHI, il piede dominante

Più che in ogni kata, si può dire che in ogni singolo momento di ogni kata ci sia un piede dominante che gestisce le azioni del corpo per variarne la direzione in movimento: è necessario comprendere da dove debba partire ogni singola azione pensando a quale piede ne prenda la gestione in ogni passo. Semplificando, il Maestro richiama il principio in base al quale in ogni cambio di direzione il primo elemento che si deve muovere è il piede avanzato rispetto alla posizione in cui ci troviamo in quel momento.
A questo si deve aggiungere necessariamente il jikuashi dei kata in seiza o in tatehiza che potremmo individuare in quel piede che maggiormente determini la stabilità e la direzionalità delle nostre azioni.
Altro fondamentale concetto legato a jikuashi è di nuovo quello di shisei: è importante che ogni movimento sia effettuato con naturalezza, dinamicamente e in modo posturalmente corretto, così da poter efficacemente gestire l’attacco di kasoteki.
Una componente basilare di jikuashi è infine la gestione del punto successivo.

JUSHIN, il baricentro

Jushin è il baricentro o, meglio ancora, il punto d'equilibrio che si trova nel seika tanden, all'interno del nostro corpo all'incrocio tra il nostro asse verticale e l'asse centrale all'altezza della parte inferiore del ventre, qualche centimetro sotto l'ombelico.
In ogni azione, più o meno dinamica che sia, jushin deve rimanere sempre all'interno del nostro corpo per stabilire l’equilibrio e determinare movimenti armonici ed efficaci: un po' semplificando, possiamo affermare che sia fondamentale “mantenere il centro” sempre in riferimento alle sei direzioni, alto-basso, destra-sinistra e avanti-indietro.
Fondamentale nel mantenimento del baricentro è la capacità di dominare la spada anche nel caso di tagli particolarmente potenti, senza da questa lasciarci trascinare in un’azione che risulterebbe quindi scomposta e in definitiva inefficace.
Rilassatezza nella parte superiore del corpo, buon lavoro di entrambe le mani, sinistra in primo luogo, ad esempio con buoni sayabiki, buon ashisabaki (spostamento dei piedi) e quindi consapevolezza di jikuashi, contribuiranno al raggiungimento dell'obiettivo, ovvero al mantenimento di jushin nella sua posizione ideale.

Ancora dalle parole del Maestro, uno studio continuativo e profondo basato su questi tre punti applicati ad ogni kata, ad ogni sua scomposizione, ad ogni movimento e sempre permeato da shishei, in ogni fase del kata, dalla preparazione allo zanshin, deve essere l’obiettivo di ogni praticante per proseguire verso il continuo miglioramento.
Queste idee, questi concetti, razionalizzati e focalizzati dalle parole del Maestro Azuma, dimostrati dal Maestro Komura, e splendidamente tradotte dal Maestro Murata, sono state il frutto di un ichi go ichi e riuscito pienamente.
Come per la cerimonia del té, un incontro, una opportunità, con tutto l’impegno dei Maestri nel voler condividere la loro esperienza e la nostra gratitudine per la loro generosità, in un evento che rimarrà per sempre in noi ma non potrà essere ripetuto esattamente come l’abbiamo vissuto in quanto, nella speranza dei Maestri, saremo tutti cambiati.

Grazie Azuma Yoshinobu Sensei e Komura Shigehiro Sensei.




__________________
l'inchiostro e la spada





0 comments:

Posta un commento